Il Fuoco nelle feste invernali: la Giöbia

“Il Fuoco nelle feste invernali: la Giöbia”
di Evghenia Sagittarya, tratto da Arya n°4, Dicembre 2010

Siamo in tempo di riposo e attesa, di buio e di freddo. La metà oscura dell’anno ha portato piogge abbondanti che hanno messo in ginocchio vaste zone nelle Terre di Hesperia, ostacolando la frenetica attività di esseri umani mai abbastanza preparati alle evenienze climatiche più estreme, distruggendo in pochi giorni il lavoro di mesi e anni. La bianca Signora si è già posata sui rilievi e su molte pianure, annunciando un inverno più rigido di quelli passati. Mentre assistiamo, anno dopo anno, a una sempre più flebile percezione dei Cicli stagionali se non sotto gli aspetti più legati alle esigenze moderne (leggi e polemiche sulle gomme da neve, servizi TV sulla crisi che rovina il turismo e gli acquisti –non sia mai che da questo collasso economico qualcuno pensi addirittura a trarre un’occasione di ritorno all’essenziale…), tra i nostri obiettivi imprescindibili c’è il recupero di una consapevolezza dei ritmi stagionali anche tramite il reinserimento-rivitalizzazione e la partecipazione attiva a quegli eventi, azioni, formule che, seppur distorte dalla modernità e dal millenario innesto cristiano, non hanno del tutto perso di Forma e di Forza nelle intenzioni popolari. 
E’ periodo di riposo, dicevamo, secondo i ritmi armonici della Ruota.
La terra si è indurita diventando una porta chiusa sul regno di Plutone, per tutto il tempo in cui Egli vorrà trattenere Proserpina e con Lei il tepore vivo della primavera. La campagna non necessita dell’intervento umano, è il tempo della morte apparente: il tempo di Saturno austero, dove in superficie tutto è spoglio e coriaceo, in profondità la Terra si prepara al parto del nuovo Sole. Anche spiritualmente, dunque, per accoglierlo è necessario spogliarsi con decisione di ogni elemento di ostacolo, come ogni nuova nascita impone la revisione delle priorità, l’eliminazione della pigrizia e del capriccio individuale in favore del nascituro. 

Per migliaia di anni le nostre genti d’Europa, abituate a lunghi e freddi inverni, hanno consapevolmente partecipato alla rigenerazione del Sole: perché l’oscurità non duri più del dovuto, per assicurarsi che la luce e il calore ritornino sulle nostre Terre e le rendano feconde, è necessario agire allo stesso modo. Agire imitando gli effetti dell’astro celeste, tramite l’utilizzo rituale del fuoco, per propiziarne il ritorno: secondo Frazer, le feste del fuoco diffuse in Europa nascerebbero da questa forma di magia imitativa, ma bisogna considerare che il fuoco viene utilizzato principalmente con intenzione purificatoria e distruttiva, è questa la coscienza entro cui agisce il popolo. Che si tratti di falò per la benedizione del bestiame o di spargimento delle ceneri per propiziare la fertilità dei campi, o di roghi di effigi particolari, il concetto intrinseco è l’annientamento di eventuali ostacoli e maledizioni.
 Al tema della rinascita dell’Infante Solare si affianca il tema arboreo del Re Agrifoglio, freddo Signore dell’anno in uscita, che viene sconfitto ciclicamente dal giovane Re Quercia, il nuovo volto di Giano che apre le porte dell’anno. Che siano fantocci fatti di rami, o tronchi di alberi particolari, si tratta del sacrificio dello spirito arboreo: risulta ostico per i moderni accettare che una divinità benefica venga arsa “viva”, più diffusa è invece l’idea del rogo della “strega” come capro espiatorio dei mali dell’inverno o personificazione della stagione stessa, come la Cailleach che dopo aver tenuto la terra stretta nella sua morsa gelida lascia il posto alla luce di Brìghde .
 Sul territorio Insubre e in particolare nel Varesotto e nel Comasco è tutt’ora viva e sentita la tradizione della Giöbia, il rogo rituale del fantoccio rappresentante una donna (più spesso una vecchia, ma non solo) all’ultimo giovedì di Gennaio, spesso coincidente con i “tri dì de la merla”, i tre giorni più freddi dell’inverno. A seconda delle zone prende i nomi di Giöbia, Giubiana, Zöbia, Zobiana, Gibiana, o anche Gianna-Gibigianna (queste versioni sono più connesse al concetto di “riflesso” o “spettro”).
L’etimologia è piuttosto immediata: dai termini che in quasi tutto il nord Italia significano appunto “giovedì”, ma è necessario da qui risalire a “Iovia” o “Ioviana”, scomodando Iuppiter e Iuno dai Loro troni: Giove nel Suo giorno (e in questo caso l’importante aspetto agreste di Thor nel mai abbastanza ribadito influsso germanico nel Nord Italia) e Giunone nei tre aspetti di Regina, Mater/Lucina e Sospita.
Una triade legata alla prosperità e alla protezione come le “Matres Dervonnae” (Madri della Quercia, di nuovo…) di origine celtica le cui raffigurazioni sono presenti in Italia Nord-Occidentale, in particolare in alcune zone del Piemonte. L’iconografia ricorrente è quella di triadi femminili in contesto naturale, danzanti o comunque legate per mano, a suggerire una continuità/unità e un senso di trionfo e rinnovamento dei cicli. Ad esse spesso si accompagna la figura maschile di Mercurio/Lugh (culto particolarmente presente nel Novarese/Verbano), che ritroveremo anche più avanti.
I fuochi della Giöbia si inseriscono tra il Solstizio e la festività di Imbolc, nel periodo delle Feriae Sementivae, delle quali è mantenuto il carattere rurale come quello purificatorio e propiziatorio dei Februalia, cui ancora Giunone presiede. Tratto comune caratterizzante è il rogo, sia esso di effigi antropomorfe (talvolta di dimensioni notevoli, che ricordano i “Wicker Man” dei sacrifici druidici citati da Cesare ed entrati nell’immaginario popolare in modo spesso distorto) oppure enormi falò le cui fiamme devono essere più alte e visibili possibile, poiché l’effetto benaugurale sarà proporzionale all’estensione del riverbero (oltre che alla direzione delle fiamme e del fumo e dalle ceneri, elementi da cui tutt’ora si usa trarre auspici per l’anno iniziato). Sempre molto sentita anche dai più giovani è l’usanza di bruciare biglietti su cui scrivere nomi, parole dai significati negativi che si vogliono distruggere (di nuovo una forma di incanalamento magico) o al contrario, desideri che vengano realizzati durante la bella stagione. Frequente è il riferimento agli auspici amorosi e matrimoniali: in alcune località brianzole la Giubiana viene portata in processione e bruciata assieme al suo “compagno” ul Gianee (personificazione di Gennaio-Giano), e le ceneri venivano usate dai ragazzi per creare le cosiddette strüse , delle scie che univano le porte di casa dei sospettati di unioni segrete o di chi non aveva il coraggio di dichiararsi alla persona amata, quando ancora i fidanzamenti avvenivano nel raggio di poche centinaia di metri e non attraverso i cavi dei social network magari alla ricerca di piaceri dal gusto “esotico” e “diverso”. La festa della Giubiana diventava così il termine limite per la ricerca di un marito entro l’anno: con l’inizio della primavera, infatti, molti giovanotti della comunità partivano per i lavori stagionali all’estero, per fare ritorno solo in autunno inoltrato. Legata a questo è anche la tradizione varesotta della puscéna di donn : forse l’unica occasione che le donne avevano di ritrovarsi tra loro per una cena a base di risòtt cun la lügàniga, in tempi in cui solo agli uomini lavoratori spettavano i bocconi più sostanziosi di carne. Gli uomini, esclusi dalla riunione, tendevano alle consorti tiri mancini di vari tipi, allo scopo di allontanarle dai piatti e rubare le prelibatezze cucinate. Altri simboli della festa della Giöbia sono appunto il risotto con la salsiccia di maiale, piatto tradizionale che viene consumato nelle serate dei falò e che rappresenta un augurio di abbondanza (come le lenticchie con il cotechino la notte del 31 dicembre) e rimanda nuovamente a Lugh, e il dolce varesino a forma di cuore che doveva essere regalato alle proprie donne, pena un’estate invasa dai moscerini, pessima prospettiva per chi lavora nei campi: “Ai donn ca mangian mia di bunbùn par la Giöbia, d’estaa ga tacan tütt i muschìtt”.
La tradizione della Gioeubia è particolarmente viva a Busto Arsizio (già “familiare” con il fuoco, considerato il toponimo – da bustum, burere = bruciato, e arsitium, che secondo un’ipotesi forse azzardata riprenderebbe il concetto di “arso”), che rimane un’isola dialettale nel Varesotto a causa del sostrato ligure ancora presente. Un po’ forzata ma possibile l’ipotesi che una sfumatura matriarcale pre-celtica sia rimasta anche nell’“inversione dei ruoli” in occasione della Gioeubia, una sorta di Saturnalia famigliari in cui erano le donne a comandare e a essere servite. Oltre che al risòtt cun la lügàniga vengono serviti i bruscìti o bruscìtt, piatto di origine povera a base di scarti di carne macinata in umido, diffuso in Valle Olona.
Aspetto ricorrente dei festeggiamenti è il fragore che accompagna i cortei, soprattutto creato dai ragazzi (naturali prosecutori di una tradizione, ruolo che tutt’oggi assumono volentieri quando si tratta di sovvertire temporaneamente il consueto ordine delle cose), con pentole, campanacci, legna, latta, che deve avere una funzione di richiamo e invito agli abitanti ad unirsi all’accensione del falò e un’altra più profonda, apotropaica, esorcizzante.
A Varese è d’uso, il 17 Gennaio, il falò di Sant’Antonio Abate nella piazza della Motta, davanti alla chiesa dedicata all’asceta egiziano le cui spoglie furono portate dai crociati nel sud della Francia. Qui il suo culto si sovrappose a quello di Lugh: al posto del cinghiale, l’iconografia cristiana ha voluto un maialino con una campanella al collo; un diavolo ammansito dal santo, che nell’immaginario popolare è legato all’inverno e alla protezione del bestiame dai demoni. Anche qui, a questo archetipo di guardiano-viandante e dispensatore di luce e fuoco, accompagnato dalla prosperità, si affidano biglietti con richieste soprattutto di carattere amoroso, o di protezione e prosperità.

Mentre affrontiamo i giorni più brevi e freddi della Ruota dell’Anno e affinché essa riprenda il suo percorso in modo fluido e benefico, ricordiamo che tra gli ostacoli che disturbano il nostro sguardo c’è l’attualissimo tentativo di smantellamento del Sacro in ogni sua forma: non ci si lasci ingannare da chi, con il pretesto di rimuovere le numerose “mani di vernice monoteista” (che pure sono innegabili, come gli effetti non certo positivi sulle genti Europee) giunge in ultimo a tentare di eliminare totalmente qualsivoglia consapevolezza spirituale di sorta. Ricordano i mercenari del Machiavelli: “Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti” (Dell’Arte de la Guerra)
Accendiamo dunque fuori e dentro di noi fuochi purificatori, belli, alti, potenti, con l’augurio di mantenerci lucidi davanti alle illusioni della modernità, nel nostro intento sincero di restaurazione della Pietas, nel rinnovo ciclico del Patto.

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